Negli ultimi anni vent’anni i social network si sono affermati tra gli strumenti principali per la diffusione del pensiero e delle opinioni. La portata delle parole di un individuo, limitata in passato al solo contesto fisico di espressione, ha acquisito una potenza nuova per il tramite delle piattaforme digitali.
Instagram, X e TikTok permettono a chiunque, con un semplice post o video, di raggiungere milioni di persone in pochi secondi.
La libertà di espressione non è però illimitata, necessitando un ragionevole bilanciamento con la tutela di altri diritti strettamente connessi alla dignità della persona, come quello all’onore e alla reputazione, nell’ottica di un equilibrio tra gli artt. 2 e 3 della Costituzione e l’art. 21 (ex multis Cass. n. 5259 del 1984; Corte Cost. 150/2021).
Il mancato rispetto dei limiti nell’esercizio della libertà di espressione può portare alla commissione di illeciti civili e penali, tra i quali assumono particolare rilievo i cd. reati di opinione, che sui social network hanno trovato terreno fertile per la loro diffusione.
1. Principali reati di opinione che possono manifestarsi sulle piattaforme digitali
- Diffamazione (art. 595 c.p.): offesa alla reputazione altrui comunicata a più persone. La pena è aggravata quando avviene a mezzo stampa o attraverso altri strumenti di diffusione, inclusi i social media;
- Istigazione all’odio razziale, etnico o religioso (Legge Mancino): punisce chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;
- Apologia di reato (art. 414 c.p.): incitamento pubblico a commettere reati o elogio di comportamenti delittuosi.
2. Il dissing tra Tony Effe e Fedez: quando la reputazione di terzi viene intaccata
Prendendo spunto dal recente dissing – scontro tipico tra artisti della cultura hip-hop a “colpi” di canzoni – tra i rapper Tony Effe e Fedez, osserviamo come in queste battaglie verbali, oltre alle offese reciproche tra le parti, siano coinvolte anche persone terze, le cui reputazioni vengono lese per colpire indirettamente l’“avversario”. Nel caso specifico, sono state fatte allusioni alla vita privata di donne dello spettacolo, a minori, sono stati condivisi all’interno di un brano stralci di conversazioni private, sollevando il tema del rispetto della dignità delle persone soprattutto quando non direttamente coinvolte nel contesto del confronto.
Questo scenario solleva una domanda importante: perché alcune persone sembrano non temere le conseguenze legali di queste azioni?
3. Il potere economico e i reati di opinione
Una possibile risposta risiede nella disparità economica tra chi può permettersi di pagare i danni derivanti da eventuali condotte diffamatorie o altri reati di opinione e chi, invece, no.
Personaggi con maggiori disponibilità di denaro, come rapper o influencer di successo, possono affrontare cause legali, risarcire i danni e proseguire con la loro carriera senza risentirne significativamente.
Le principali conseguenze, per questo tipo di reati, sono difatti molto più sanzionatorio-pecuniarie che detentive. Chi commette, ad esempio, il reato di diffamazione, potrebbe trovarsi a rispondere con una sanzione penale raramente di tipo personale – custodiale, essendo molto più frequente nella prassi la condanna al pagamento di una multa e in sede civile al risarcimento dei danni.
3.1 Quanto vale un’offesa?
Rispetto alla condanna al risarcimento danni, l’art 185.2 del Codice Penale stabilisce che “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”.
La disposizione va letta in combinato disposto con l’art. 2059 c.c. per cui detta responsabilità (del cd. danno non patrimoniale) – limitata ab origine ai soli casi previsi dalla legge – è stata estesa alla lesione dei diritti della personalità, quali interessi costituzionalmente tutelati per il tramite dell’art. 2 Cost. a prescindere dalla idoneità della lesione a configurarsi quale illecito penale.
Il reato di diffamazione – inserito nel Titolo XII del Codice Penale quale delitto contro la persona – è già dalla sua precisa sistematica significativo di quanto la condotta sia idonea a ledere l’onore e la dignità umana quali beni costituzionalmente tutelati; il problema c’è riguardo alla concreta liquidazione del danno.
In parole semplici: quanto vale un’offesa?
La liquidazione del danno non patrimoniale da lesione di diritti della personalità, come la dignità, non segue criteri rigidi, ma è soggetta alla cd. valutazione equitativa da parte del giudice, ex art. 1226 del Codice Civile. Ciò avviene attraverso una stima che tenga conto delle circostanze specifiche del caso, come la gravità della lesione, la durata e l’intensità delle conseguenze subite dalla vittima.
La liquidazione per equivalente del danno non patrimoniale solleva degli enormi problemi di discrezionalità e uniformità applicativa, non essendo ancorata a parametri predeterminati né tantomeno proporzionale al reddito di chi commette l’illecito, riferendosi le circostanze su cui determinare la quantificazione al solo soggetto passivo.
Sulla condanna al pagamento della multa (come sanzionale pecuniaria di natura penale), invece, vi è uno strumento di commisurazione della pena in base alle condizioni economiche del condannato, finalizzato a far sì che il reo la avverta come giusta e proporzionata nella sua funzione rieducativa: l’art. 133 bis del c.p., introdotto con la l. n. 689/81.
L’art 133 bis c.p. prevede difatti che nella determinazione dell’ammontare della multa o dell’ammenda il Giudice debba tener conto anche delle condizioni economiche e patrimoniali del reo.
Questa disposizione però neppure appare risolutiva, poiché il Giudice potrebbe muoversi solamente all’interno di predeterminate cornici edittali, tutt’al più aumentandole fino ad un terzo qualora ritenga che le misure massime siano inefficaci (art. 133bis, comma 2).
Se pensiamo alla più alta cifra della multa comminabile in caso di diffamazione – € 2.065 nel caso di offesa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato ex art. 595 comma 2 – non pare comunque che l’aumento sia un valido deterrente per quei soggetti particolarmente abbienti, soprattutto considerando che sovente il ritorno di immagine e la conseguente monetizzazione che deriva da questo tipo di condotte supera di gran lunga il “costo” dell’illecito.
4. Diseguaglianza nel concreto esercizio della libertà di manifestazione del pensiero
Col passare del tempo è immaginabile un futuro in cui la libertà di espressione diventi più ampia per chi ha i mezzi finanziari per affrontare le conseguenze legali di una violazione dei relativi limiti; appannaggio di una classe economica agiata, che bombarda il pubblico con opinioni e idee valicando i confini del lecito, in modo spesso violento, irrispettoso e incontinente.
I social network, veicolo di diffusione rapida ed efficiente, amplificano questa disparità: chi ha più risorse ha più voce e, potenzialmente, più influenza sull’opinione pubblica.
In questo modo, oltre ad alimentare la diffusione di una “cultura dell’odio”, si rischia di compromettere uno dei principi fondanti della democrazia: la parità di accesso alla libertà di manifestazione del pensiero. Se solo chi può permettersi di pagare per le conseguenze legali dei propri eccessi ha la possibilità di esprimersi senza paura, il pluralismo delle idee viene meno, trasformando la libertà di espressione in un’arma a vantaggio di pochi.
5. La paura dei social network: quando i “Big del Tech” sono più temuti dello Stato
Un altro aspetto emergente dall’osservazione di questi fenomeni è che i personaggi famosi sembrano oggi temere più il potere delle piattaforme tecnologiche che quello dello Stato. Ciò riflette un nuovo ordine di potere nel mondo digitale: essere bannati o esclusi da social come Instagram, X o YouTube può rappresentare una punizione concretamente più afflittiva rispetto ad una condanna civile o penale.
La presenza e la visibilità sui social media sono diventate strumenti fondamentali per mantenere e far crescere il proprio pubblico, la propria influenza e, in ultima analisi, il proprio successo economico. Perdere l’accesso, anche temporaneo, a queste piattaforme significa subire un colpo devastante alla propria immagine pubblica e al proprio business: si riduce drasticamente la capacità di comunicare e interagire con i fan e di monetizzare.
Siamo dunque giunti a una situazione paradossale, in cui i “big del tech” esercitano un controllo maggiore rispetto alla forza repressiva dello Stato. Queste piattaforme detengono un potere vastissimo, è pertanto legittimo chiedersi se detto Stato possa assumere un ruolo più attivo nel regolamentare la loro gestione, prevedendo un controllo pubblico che si inserisca nell’autonomia delle piattaforme private.
I social network difatti decidono autonomamente chi bannare, quali contenuti rimuovere e come gestire i loro utenti. È una situazione che potrebbe portare a una sorta di arbitrio nella gestione della libertà di espressione, un rischio particolarmente grave in un contesto in cui le piattaforme rappresentano ormai una piazza pubblica virtuale, luogo principale dove le opinioni si formano, si discutono e si diffondono. E se questo diventa possibile in Paesi come il nostro, ove la cultura democratica è un valore riconosciuto e difeso, cosa rischia di accadere in quelli dove non c’è alcuno Stato che si preoccupi di tutelare i propri cittadini?
A tal proposito, auspichiamo che la definitiva entrata in vigore a febbraio 2024 del Digital Services Act – Regolamento 2022/2065 approvato dall’Unione Europea che introduce una serie di regole a garanzia del corretto operato delle piattaforme online – possa contribuire a rendere più sicuro lo spazio digitale.
Il regolamento, pur confermando il principio dell’assenza di una generale responsabilità delle piattaforme per i contenuti illeciti diffusi, prevede una vigilanza della Commissione Europea sui fornitori di piattaforme online e motori di ricerca di dimensioni molto grandi: Google, Meta e gli altri Big dovranno sottoporsi a controlli regolari per assicurare la conformità alle nuove norme, stilando rapporti dettagliati sulle loro operazioni e pratiche di moderazione: se la Commissione accerta una violazione della normativa sui servizi digitali, può adottare una decisione che infligge ammende fino al 6% del fatturato globale dell’azienda in questione.
6. Considerazioni conclusive: la necessità di una cultura del valore come antidoto alla deriva del sistema
L’odierno dibattito sull’utilità della pena ruota attorno a tre cd. “idee-guida”: retribuzione (la sanzione come colpa del male commesso), prevenzione generale (la minaccia della pena come deterrente alla commissione del reato) e prevenzione speciale (la pena comminata a un soggetto che impedisce allo stesso di ricommettere in seguito altri reati, meccanismo funzionalizzato nel nostro sistema dall’art. 27, comma 3, Cost. per il tramite della rieducazione intesa come rispetto dei valori fondamentali della vita sociale).
La funzione di prevenzione generale si è nel tempo evoluta assieme alle scoperte legate alla psicologia dell’individuo: l’approccio costi – benefici ha ceduto il passo a considerazioni più complesse riguardo alla formazione di una coscienza morale osservante i comandi della legge.
È necessario che esista una sostanziale convergenza tra disapprovazione sociale e disapprovazione legale affinché gli individui percepiscano un effettivo disvalore nella commissione di un fatto di reato.
Si rende pertanto ancora più necessario investire in una cultura del rispetto, della responsabilità e della consapevolezza digitale, per consentire alle nuove generazioni di comprendere i limiti etici e legali della libertà di espressione. Solo considerando le piattaforme come strumento di dialogo e non di prevaricazione si eviterà, come naturale conseguenza, la commissione di questo tipo di reati.
La crescita esponenziale dei social network ha sì messo in luce la necessità di ripensare i meccanismi di sanzione – valutando, ad esempio, la previsione di multe proporzionali al reddito, come già avviene in altri Paesi – ma la diffusione di contenuti violenti o diffamatori non può essere contrastata soltanto con il diritto.
La vera sfida per il futuro sarà quella di promuovere una concreta ed effettiva educazione all’utilizzo del digitale. È necessario formare cittadini consapevoli del valore delle parole e del loro impatto, evitando che la legge debba intervenire in modo repressivo. In fin dei conti, è proprio quando la società fallisce nel garantire un equilibrio etico che il diritto diventa più stringente, ponendosi l’obiettivo di sanare le lacune che la cultura e l’educazione non riescono a colmare.
Il futuro che ci troveremo ad affrontare necessiterà la costruzione di una società più matura, capace di autoregolarsi, dove la libertà di espressione non diventi un’arma pericolosa ma un’opportunità per arricchire il dibattito pubblico e rafforzare la democrazia.
D’altronde, da sempre nella storia dell’uomo, è il confronto con l’altro che stimola nuove idee e contribuisce al progresso della società e non pare immaginabile alcuna crescita senza che detto “altro” lo si impari a tutelare e rispettare.
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